Mozzarella.
Il lavoro di psichiatra?
Appartiene ormai al mio passato. Quelli che ora si chiamano Istituti
d’igiene mentale allora si chiamavano manicomi e i pazienti che vi erano
ricoverati pazzi.
Ancor oggi c’è molto da scoprire sulle malattie mentali, soprattutto per
la loro cura. Con il tempo io mi convinsi che vi fossero due tipologie
principali di malati, spesso interconnesse e che, inoltre, quasi mai è
possibile trattare i malati collettivamente.
Nel primo gruppo la malattia deriva da uno sviluppo mentale condizionato
da un ambiente degradato, carente di serenità e relazioni sane: il soggetto si
sente fortemente contrastato, si isola, la sua sensibilità e il suo grado di
percezione si alterano e, conseguentemente, si scontra con la realtà.
Nel secondo, si tratta di un incompleto sviluppo fisico-chimico del
cervello e delle interconnessioni delle sue diverse aree, dovuto a fattori
ereditari o a inconvenienti nel corso della vita fetale e infantile o a
specifici traumi e malattie.
Si tratta di un campo molto delicato, difficile e impegnativo, in cui
non sempre è possibile raggiungere risultati.
Quanti pazienti ho esaminato nella mia lunga carriera! Con le conoscenze
del tempo le guarigioni complete erano veramente rare.
--- Mi chiedi di riferirti di qualche caso particolare?
I malati mentali, come i sani, sono uno differente dall’altro; anzi,
essendo meno coinvolti nel processo di scolarizzazione, le loro diversità sono
ancora più accentuate che negli individui normali. Uno, però, non lo
dimenticherò mai!
Lo chiamavano “Mozzarella”, perché era nativo di Battipaglia, conosciuta
per la produzione di mozzarella di bufala.
Quando me lo sottoposero, era già ricoverato da diverso tempo e, pur non
avendo un aspetto “da pazzo”, era oramai chiuso in un silenzio tombale e non
parlava più con nessuno. Nel procedere quotidiano agiva in maniera pressoché
normale, ma evitava le relazioni, standosene sempre in disparte; raramente
diventava aggressivo, salvo quando tentavano di infastidirlo. Non aveva mai
aggredito qualcuno.
Il suo caso m’incuriosì e approfondii la sua cartella clinica. Quasi
tutti i colleghi che l’avevano avuto in cura
evidenziavano la sua incomunicabilità, senza tuttavia averne potuto
scoprire l’origine a causa del suo silenzio e delle sue rare e occasionali
manifestazioni d’ira.
Il collega che per primo lo aveva accolto in manicomio aveva annotato:
“È stato oggi ricoverato perché, nell’aula universitaria in cui seguiva una
lezione, ha iniziato a contraddire violentemente il professore, provocando un
gran subbuglio, l’intervento delle forze dell’ordine e dei sanitari, che lo
hanno qui ricoverato. È ancora alterato e i suoi ragionamenti si sviluppano sul
sottile confine tra stravaganza e genialità. Non è molto propenso ad ascoltare.
I parenti riferiscono che già in precedenza c’erano stati altri episodi del
genere, senza che né loro né il medico curante fossero riusciti a capirne il
perché. Bisognerà indagare sulle cause che gli causano la perdita di
autocontrollo”.
Esaminata la sua storia clinica, cominciai nel tempo a elaborare un
approccio per cercare di far breccia nel mutismo in cui si era chiuso. Era
comunque chiaro che dovevamo essere solo in due, io e lui, senza altri che lo
infastidissero. Curai anche che la stanza fosse quanto più scarna possibile.
Cominciai a convocarlo ogni quindici giorni, nello stesso giorno e alla
stessa ora, inizialmente per brevi incontri. Il mio obiettivo era quello di
metterlo a suo agio e di capire con pazienza quando avrei potuto rivolgergli la
parola.
Lo accoglievo in abiti borghesi e lo facevo accomodare su una poltrona
rivolta su una finestra che dava sul verde del parco. Io sedevo sulla poltrona
accanto, a circa un metro e mezzo da lui, alla finestra successiva, con la
stessa vista; poi, a basso volume facevo partire un piacevole e rilassante
brano di sola musica da film.
Dopo diversi incontri iniziai a
tirar fuori una tavoletta di cioccolato gianduia con le nocciole intere e
gliene allungai la metà senza parlare, sgranocchiandola insieme a lui.
Continuai nello stesso modo per altro tempo, finché un giorno volse lo sguardo
verso di me. Lentamente feci ruotare le poltrone in modo da stare uno di fronte
all’altro; la volta successiva fu lui a ruotare la sua poltrona di fronte alla
mia, aspettando che io facessi lo stesso.
Inizialmente il suo sguardo non incrociava mai il mio, fino a quando i suoi
occhi incontrarono i miei per un attimo, in maniera sfuggente. Ci volle ancora
tempo prima che riuscissi ad acquistare la sua fiducia: erano passati più di
quattro anni!
Cominciammo a colloquiare, ma stavo molto attento a non urtare la sua
suscettibilità e a capire il suo punto di vista. Lo ascoltavo con interesse,
cercando di accantonare completamente il mio ruolo. Non si notava alcuna
anomalia, era perfettamente normale.
Pensai di proporgli diversi oggetti, uno alla volta, per vedere se
riuscivo a capire cosa lo alterasse. Fui fortunato iniziando da un quotidiano;
dandogli un grosso pennarello gli chiesi di mettere una ics su ciò che non gli
piaceva. Lo feci sedere di fronte alla mia scrivania, in modo che potesse
appoggiarsi, mentre io mi distraevo occupandomi di altro.
Alla fine della seduta gli chiesi di lasciarmi il giornale ed esaminai
con cura tutte le ics che aveva segnato. Sempre usando lo stesso tratto aveva
messo diverse ics sulla politica, la cronaca nera, la cronaca rosa e la
pubblicità, lasciando pressoché intonsi gli altri argomenti; salvo due grosse
ICS, ripetute più volte con stizza, su due articoli: uno riguardava un
procedimento giudiziale e l’altro la modifica di una legge.
Pensai di aver individuato dove potesse essere il problema e in una
delle sedute successive, dopo averlo ascoltato lungamente e con calma, gli
chiesi se avessi potuto sottoporgli un documento. Acconsentì. Gli mostrai una
“Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana”, chiedendogli di riferirmi cosa
ne pensasse.
Come la vide cambiò espressione. Diede una rapida scorsa e, man mano che
la sfogliava, s’irrigidiva, fino al punto che il suo sguardo diventò di fuoco.
Ad un certo punto non ne poté più e, dopo avermi lanciato uno sguardo torvo, la
strappò e la ridusse in mille pezzettini, che sparse per la stanza.
Mantenni lo sguardo basso per non incrociare il suo, mantenni la calma
e, in silenzio, assunsi un atteggiamento tale da fargli capire che non
condannavo la sua reazione.
Lo lasciai sbollire per una decina di minuti, rimisi la solita musica da
film e gli offrii un pezzo del solito cioccolato. Mentre ancora masticavamo,
gliela buttai lì: “Ma cos’è che non va?”. “Cosa c’è che ti fa incazzare?”.
Mozzarella, fulminandomi con lo sguardo, esclamò: “E me lo chiedi
pure?”. “Tu sei un dottore, una persona colta, e non te ne accorgi?”. “Non vedi
che i provvedimenti che vi sono pubblicati sono poco chiari e che sono fatti
per non far capire? È sbagliata dall’inizio alla fine! E considera che sono
decine di anni che passa sotto gli occhi di migliaia di persone, tra cui
addetti ai lavori, professionisti e cattedratici!”.
Egli aveva pronunciato le sue sentenze tutte di un fiato, come se avessi
tolto il tappo a una bottiglia di spumante.
Rimasi ancora in silenziosa attesa e ripresi: “Mettiamo che io sia in
buona fede e non mi accorga di quello che per te è invece ovvio”. “Nella tua
camera, potresti scrivere su qualche foglio quali sono le cose che non vanno?”.
“Ti lascio tutto il tempo che vuoi!”.
Non mi rispose, era ancora alterato, ma mi sembrò di cogliere un barlume
di possibilità. Poi, rientrando in sé, mi salutò sereno.
Dopo circa un mese ci incrociammo nel corridoio e, furtivamente, mi
consegnò uno scritto compilato di suo pugno.
oooOooo
Ne ho conservato una copia, anche perché la calligrafia esprime, oltre
che i concetti, i diversi stati d’animo dell’estensore. Se aspetti un momento,
te ne mostro una copia
Come puoi vedere la scrittura è irregolare, i caratteri sono ora grandi
ora piccoli, i tratti di penna lievi o marcati. Nei tratti marcati, in
particolare, sembra come se la penna, invece di essere tenuta delicatamente fra
le dita, sia stata nervosamente usata tenendola in mezzo al palmo della mano.
Ci sono poi molte correzioni, con tratti di penna decisi, che dimostrano il
disagio di chi scrive nell’esporre in maniera piana e lineare. Si tratta però
di correzioni grammaticali o lessicali, i concetti sono espressi in maniera
chiara, concisa e inequivocabile.
“Caro dottore, mi hai chiesto di segnalarti cosa c’è che non va nella
gazzetta ufficiale.
Nessuno sa meglio di te che sono
pazzo e perciò brevemente e senza perdere tempo ho messo giù, come mi veniva, quello
che non va.
Non è compito mio proporre le soluzioni in dettaglio. C’è gente pagata
lautamente per individuarle!
La situazione è grave perché nasce da un’errata impostazione di fondo:
la preservazione della legge e della Giustizia in quanto tali, come valori a se
stanti. Si tratta di un madornale errore! Ancor più se si considera che
un’impostazione sbagliata è molto più pericolosa e dannosa di un errore occasionale.
La Legge per sé stessa non ha alcun valore. Si tratta di un’accozzaglia
di norme scritte in epoche diverse e talvolta remote, sollecitate da centri
d’interesse e di potere diversi, redatte in maniera confusa e scoordinata.
Le leggi hanno un valore civile e morale inestimabile solo se sono
funzionali a raggiungere il loro obiettivo.
E l’obiettivo principale, il fine ultimo, è quello di: esercitare la
Giustizia in funzione del miglioramento della convivenza sociale. Ciò che si
pone al di fuori di questo principio è sbagliato e senza senso.
La Giustizia - e con essa i politici, la magistratura, gli avvocati, i
cattedratici e gli studiosi - ha da tempo imboccato una strada sbagliata. I
cultori del diritto sono capaci di scrivere migliaia di pagine per commentare,
sminuzzare, contestare, difendere, argomentare e interpretare una norma o un
cavillo; piuttosto che non le dieci righe necessarie per aggiornarla e renderla
più chiara e inequivocabile.
Gli addetti ai lavori non si adoperano per soddisfare gli scopi per cui
è nato il concetto di Giustizia e pensano esclusivamente a tutelare e a
difendere interessi singoli e corporativi.
Nella storia umana, alla fine, tutti i tipi di Stato e i sistemi di
governo hanno fallito, compresa la democrazia. E quando ciò è avvenuto, non è
dipeso dalla forma di stato o di governo quanto, piuttosto, perché in essi era
venuta meno l’equità ed era fallita la Giustizia!
Le leggi devono essere chiare e comprensibili, essendo un onere del
legislatore rendere quanto più semplice possibile la loro applicabilità. I
provvedimenti non devono mai contenere rimandi ad altre norme né consistere in
modifiche di singoli articoli: bisogna sempre procedere alla ripubblicazione
integrale del testo della legge modificata.
Tutti i provvedimenti devono essere sempre preceduti da un preambolo che
deve indicare quali sono gli obiettivi del provvedimento. Di tale preambolo
devono tener conto sia i cittadini per adeguare i loro comportamenti nel tempo
sia i Magistrati, specie nel giudicare i casi più controversi.
Un’apposita funzione statale deve verificare periodicamente nel tempo la
validità dei testi regolamentari suggerendo la modifica, l’integrazione o
l’abrogazione delle norme desuete.
I provvedimenti devono sempre terminare con istruzioni applicative e con
riferimenti alle norme abrogate. Devono essere sempre previste sanzioni, per i
casi d’inosservanza, che devono essere correlate all’importanza dell’obiettivo
espresso nel preambolo e coerenti, quanto a criteri di equità, con il rimanente
sistema sanzionatorio.
In caso di modifiche devono sempre essere riviste anche l’attualità del
preambolo, le norme applicative e le sanzioni.
Nella Gazzetta ufficiale devono essere pubblicati solo i provvedimenti
legislativi, mentre per la pletora di ulteriori altri atti ivi inseriti devono
essere previste altre forme di pubblicità.
L’Amministrazione della Giustizia, per quanto concerne la Magistratura e
il funzionamento dei Tribunali, deve essere economicamente autonoma dal
Governo. I Magistrati in servizio devono astenersi dall’attività politica, da
qualunque altro esercizio retribuito o professionale e dagli scioperi. Gli
stipendi dei Magistrati devono essere collegati ad altre funzioni statali, e
correlati al rendimento sul servizio. Devono essere previsti adeguati controlli
sia nell’esercizio della funzione giudicante (da parte del Consiglio Superiore
della Magistratura) sia nel corretto esercizio della spesa (Corte dei Conti).
In generale, nell’apparato statale nessuna funzione deve essere priva di
controllo da parte di altro organo; nemmeno le strutture deputate ai
controlli!!!
Gli avvocati devono collaborare con i Magistrati nell’amministrazione
della Giustizia e, dunque, devono essere aspramente penalizzati quei
professionisti che, speculando su cavilli legali o stravolgendo artatamente i
fatti, ostacolano il corso della Giustizia e fanno sì che soccombano gli onesti
e le persone in buona fede. Oppure fanno sì che, nei delitti penali, i
colpevoli non subiscano una giusta condanna; tesa alla rieducazione e al
reinserimento.
Il compenso degli avvocati deve essere assolutamente differente a
seconda che si vincano o perdano le cause (bisogna smetterla con i legali che
perorano anche le cause palesemente perse in virtù del fatto che vengono
comunque ugualmente remunerati).
Le pene devono essere severe, immediate e limitate nel tempo, in
rapporto alla portata del reato e della recidività. Esse devono tendere
effettivamente al reinserimento nell’organizzazione sociale dei detenuti e,
pertanto, non possono mai consistere nella mera carcerazione. I detenuti devono
svolgere all’interno delle carceri, e in casi limitati anche all’esterno,
un’attività lavorativa con la quale pagarsi le spese per i pasti e il soggiorno
in galera. Deve essere attuato un apposito monitoraggio periodico per
verificare l’efficienza complessiva del sistema carcerario.
Le condanne penali devono essere sempre accompagnate da una pena
pecuniaria, oltre all’assoggettamento a tassazione dei proventi delle attività
illecite e al sequestro dei beni con essi acquistati. Una parte dei proventi
recuperati deve essere destinata al reinserimento nel tessuto sociale dei
delinquenti e per altri scopi di Giustizia.
Nel caso di condanne penali relative a organizzazioni criminali e quando
i proventi illeciti siano stati fonte di reddito per terze persone, deve essere
prevista un’apposita azione per evitare che a queste vengano a mancare le fonti
di reddito.
Infine, in qualunque Stato civile, non deve mai succedere che un
cittadino debba iniziare un’attività illegale, per indisponibilità di lavoro
onesto.
Firmato: Muzzarell ‘o pazz’”.
Feci diverse copie del documento e lo sottoposi ad amici Giuristi,
Magistrati, Avvocati e Politici.
Nel frattempo cominciai anch’io a leggerlo e rileggerlo, spulciandolo
con calma.
Ancora non avevo finito la mia disamina che già era di ritorno il
giudizio unanime degli amici esperti: “Si tratta di uno scriteriato, di un
pazzo!”.
La circostanza corrispondeva al vero: Mozzarella era rinchiuso in
manicomio! Non so se la loro valutazione fosse stata influenzata dal fatto che
il parere gli fosse stato richiesto da uno psichiatra, ma l’esito era in ogni
caso inequivocabile. D’altronde anche la mia diagnosi si andava orientando
verso una fortissima dissociazione del paziente dal contesto reale e
dall’evidenza: una sola persona, per di più ricoverata in manicomio, che
confutava lo storico impegno di centinaia, forse migliaia di esperti e professionisti!
Decisi, come per i casi più dubbi, di lasciar trascorrere un po’ di
tempo prima di pervenire a una conclusione definitiva. In tali casi, per avere
una successiva conferma, sottoponevo le mie ipotesi al teorema che espresse mio
padre nel giorno in cui mi avviai all’esercizio della professione: “Ora che sei
diventato un medico dei pazzi, non dimenticare mai che la vera pazzia si
alimenta con il rifiutare la più chiara evidenza e con la rinunzia a esercitare
il buon senso”.
Quando qualche tempo dopo completai la mia indagine, giunsi a
un’aberrante conclusione, che non riportai nei documenti ufficiali, anche
perché non sarebbe servito a nulla. Tanto Mozzarella non sarebbe guarito mai e,
comunque, nessuno mai gli avrebbe dato credito. In ciò ebbi l’avallo di un solo
amico, luminare del Diritto, che tuttavia ci tenne a comunicarmi il suo parere
su un foglietto anonimo: “Se chi ha scritto queste sconclusionate
considerazioni, è pazzo, la sua pazzia consiste nell’essere innamorato della
Giustizia molto, molto più, di noi esperti”.
L’opinione cui giunsi alla fine fu la seguente: “Mozzarella non è
pazzo”. “E se in lui c’è una qualche forma di dissociazione e di pazzia, esse
sono legate all’impossibilità di vedere realizzata la Giustizia e la Legalità”.
Mi trovai nell’assurda condizione di concludere, senza poterlo rendere
ufficiale, che pazzo non era il paziente, ma il mondo esterno.
Certamente le sue idee erano espresse in modo balzano e confuso, ma esse
avevano un fondamento di verità e, soprattutto, erano più concrete di tanti
inutili e ipocriti teoremi dottrinali.
Il paziente era uscito fuori dal senno o, meglio, dava in escandescenze
quando si toccava l’argomento a lui più caro, perché quello che per lui era
sacrosanta verità veniva sistematicamente rifiutato dagli altri o per interesse
o per mancanza di onestà intellettuale!
Probabilmente sarebbe bastato che in gioventù qualcuno avesse cercato di
ascoltarlo e gli avesse insegnato a distinguere quanto delle sue potenzialità
era da attribuire all’esuberanza del carattere, e dunque doveva essere
scartato, e quanto alle sue straordinarie capacità intuitive, e quindi meritava
di essere incanalato in una comunicazione appropriata per essere accettata
dagli interlocutori.
Insomma, Mozzarella era diventato “pazzo” semplicemente perché non era
riuscito a sintonizzarsi con il mondo esterno e a realizzarsi in quella che era
la sua più innata caratteristica: precorrere i tempi con una visione obiettiva
e imparziale del fondamento della convivenza umana, la giustizia.
Prescrissi l’eliminazione di tutti i farmaci e che assolutamente
Mozzarella non fosse interessato in questioni attinenti le leggi o il diritto.
Non guarì, ma visse in maniera più soddisfacente: aveva accantonato
definitivamente la possibilità di vedere realizzato il suo più grande (e
legittimo) sogno.
Febbraio
2010